STORIA DELL'ISTITUTO

 

Fabrizia….un po’ di storia
La nascita di Fabrizia "ufficialmente" risale al 1591, anno in cui ebbe termine la costruzione della residenza estiva del principe Fabrizio Carafa, da cui prese nome il territorio delle "prunari", o "cropanei", già da diverso tempo abitato da numerosi pastori e contadini provenienti in prevalenza da Castelvetere ( oggi Caulonia ).Dello stesso anno è l'edificazione dell'attuale chiesa matrice - a quel tempo denominata Cappella del SS. Sacramento - voluta e dotata di beni proprio della famiglia Carafa, grazie anche all'interessamento del vescovo di Gerace Bonardo, nel precipuo intento di governare meglio una comunità che in piena libertà traeva vantaggi dall' abbondanza dei pascoli e da una notevole fertilità agricola. Fabrizia rimane assoggettata al casato jonico dapprima come villaggio sottoposto a Castelvetere e poi Roccella fino al 1644, allorchè divenne comune autonomo a cui si assegnò un territorio molto più esteso di quello attuale comprendente zone a quel tempo sconosciute dove oggi sorgono i paesi di Mongiana, Nardodipace, Campoli, S.Todaro, Prateria, Cassari e Ragonà. Nel medesimo anno la curia vescovile di Gerace - proprietaria anch'essa di numerose tenute sul feudo prunerese - provvide ad affidare la cura spirituale dei fedeli in sostituzione dell' economo da sempre prescelto dai Carafa al sacerdote, il primo di Fabrizia, Giovanni Silipo.Il dissidio tra Curia e Feudalità sul governo del feudo fabriziese è alla base della costruzione di altre due chiese: una del SS. Rosario, realizzata nel 1742 da Gennaro Carafa e di esclusivo patronato della Nobiltà; l'altra, quella, del Carmine, edificata ad opera del sacerdote Antonio Arena nel 1753 grazie ad un fondo denominata "mellara" costituito dalle offerte dei fedeli riunite in una delle prime confraternite fabriziesi. Il trasferimento a Napoli della famiglia Carafa provocò il declino della comunità prunarese: sempre più in balia dei briganti e dei nuovi nobili locali. Anche il patrimonio immobiliare del Casato si avviò verso uno stato di sfacelo inarrestabile. A nulla valsero i lavori di restauro sul vecchio castello baronale del 1763, mentre qualcosa in più si ottenne a favore della chiesa del SS. Rosario che venne affidata nel 1779 alle cure della confraternita omonima costituita nel 1776 ed ancora oggi esistente. Il tramonto definitivo dell'egemonia jonica a Fabrizia coincise con il devastante sisma del 7 marzo 1783 che comportò il passaggio amministrativo del paese nel distretto, creato dalla "Cassa Sacra", di Monteleone (oggi Vibo Valentia). All'indomani del terremoto molti fabriziesi andarono via e fondarono nuovi villaggi come Aguglia, Focà, Campoli, Nardodipace, S. Todaro e Ragonà. Nel contempo la Cassa intervenne a Fabrizia per finanziare la completa ricostruzione della chiesa matrice che venne progettata dall'ing. Biagio Scaramuzzino -lo stesso che realizzò le belle chiese di Serra San Bruno - e completata nel 1802. La nuova Matrice, che prese il nome di S. Maria delle Grazie, ha conservato finora quella struttura architettonica costituita da una facciata a due ordini e timpano serrata da due bassi campanili. Anche la chiesa del Carmine, rimasta miracolosamente illesa, beneficiò dell'intervento della cassa sacra: ad essa furono affidati i beni della soppressa parrocchia di S. Todaro e parte dei beni del soppresso convento degli Agostiniani entrambi di Caulonia.Nel 1790
Fabrizia assurse agli onori della cronaca del Regno di Napoli grazie ad una lettera anonima di un "cittadino zelante" che la Storia non è mai riuscita ad identificare. La missiva, che indicava Fabrizia quale centro promotore di una rivolta popolare di tutto il Sud, indusse il governo borbonico ad inviare sul posto un consigliere, tale L. Medici, il quale a distanza di qualche mese rassicurò la Corte ed invitò il sovrano ad intervenire per fronteggiare il malessere sociale originato dalla povertà e dalle continue violenze perpetrate da galantuomini prepotenti e briganti. Ed invero gli aiuti del governo borbonico non si fecero attendere! Dal 1790 fino quasi alle soglie dell'Unità d'Italia Fabrizia visse un periodo di magnifico splendore. Tutte le energie del territorio entrarono in fermento, grazie alla apertura delle Regie Ferriere dislocate in località "mungiana" dove i fabriziesi erano soliti portare a pascolo e mungere gli armenti. Qui sorsero officine ed armerie che diventarono in poco tempo le più importanti del regno di Napoli.
La comunità prunarese ne ricavò un sensibile miglioramento economico, giacchè la fabbrica assicurò lavoro ad una discreta quantità di manodopera locale e stimolò nel contempo tutte le altre attività economiche. Assunsero forme di notevole spessore le industrie connesse alla lavorazione del ferro, ripresero nuovo slancio le attività artigianali collegate alla pastorizia, trovarono sbocchi commerciali le svariate e ricche produzioni agricole. Sugli argini dell' Allaro si ravvivarono gli stabilimenti edificati nel corso del Settecento e parecchio danneggiati dal sisma del 1783: i mulini per la macina del grano, le fornaci per la realizzazione dei materiali edili ed i "vattendieri" per la lavorazione della lana. I mestieri artigianali si ampliarono a dismisura. Accanto ai valenti scarpari ( calzolai) e custuriari ( sarti) si attivarono falegnami, ferrai, carbonari, funai, caddarari, scarpellini e muratori, mentre le donne contribuivano all'economia familiare con telai di produzioni inglese - quelli provvisti di navetta volante - con cui fabbricavano l'occorrente per le necessità domestiche e personali utilizzando lana, cotone e lino presenti in abbondanza sul territorio. La straordinaria vitalità economica non subì alcuna turbativa durante il decennio francese (1806 - 1815) se si esclude la fase iniziale, allorché tra l'esercito napoleonico ed i briganti filoborbonici si diede vita ad una violenta guerriglia che insanguinò anche la terra di Fabrizia. Tra i capi della rivolta antifrancese si ricorda il fabriziese Giuseppe Monteleone, detto "Runca", che dai Borboni aveva ricevuto il compito di sollevare i contadini contro Giuseppe Bonaparte. Risale a questi anni il ritrovamento della statua di S. Antonio da Padova, oggi protettore di Fabrizia ma anche la nuova denominazione del territorio prunarese in "Fabrizia e Mongiana" in quanto comune comprendente i due centri. La magnificenza prunarese venne interrotta da due provvedimenti "piovuti dall'alto": con Regio Decreto del 6 dicembre 1852 il vasto demanio fabriziese venne smembrato in più parti, ognuna delle quali acquisì una distinta autonomia comunale; nel 1861, in concomitanza dell'unità d'Italia, il governo piemontese decise di non sostenere più le Regie Ferriere che pertanto furono costrette a chiudere i battenti. Fabrizia fu svuotata da ogni risorsa e, abbandonata a se stessa, si avviò verso un progressivo stato di emarginazione e di povertà. L'emigrazione in grande stile all'indomani della sconfitta del brigantaggio postunitario ed il terremoto del 1905 infersero colpi mortali alla comunità prunarese che non riuscì mai più a rinverdire i fasti d'un tempo. Anche la Matrice abbisognò dopo il sisma di ingenti riparazioni: l'altare maggiore, andato distrutto, venne rimpiazzato nel 1913 da altro commissionato ai marmisti napoletani che provvidero a costruire altresì una cripta assai decorativa in cui è riposta la Statua del santo patrono. Molti furono i figli di questo paese che perirono nella prima guerra mondiale. A testimonianza del loro sacrificio Fabrizia eresse a tempo di record regionale un monumento ai caduti realizzato dallo scultore Vincenzo Romeo che, inaugurò il 24 maggio 1924, trovò collocazione tra la Matrice ed palazzo dei Carafa. Il sisma del 7 marzo 1928 provocò ulteriori danni alla Matrice che soli tre anni prima era stata decorata riccamente dai più valenti artisti calabresi dell' epoca, cioè dai pittori Zimatore e Grillo di Pizzo. Peggior sorte toccò alla Chiesa dell'Immacolata, regina della Vittoria, che, edificata sul punto più alto del rione Timponello e benedetta il 24 maggio 1929, vene chiusa al culto e poi demolita a seguito dell'alluvione del 1931. La chiesa era stata finanziata dall'antica confraternita del Carmine riapprovata dall' ordine diocesano nel 1929 nonché dalla locale Società di Mutuo Soccorso costituita nel 1926. Quest'ultimo sodalizio si prodigò insieme ad altri illustri paesani a realizzare nel corso del 1931 l'asilo infantile intitolato "Casa materna di S. Antonio da Padova". Dal secondo dopoguerra ad oggi la storia di Fabrizia si allinea a quella di tutti gli altri Paesi della Calabria, laddove la cittadinanza è inclusa nei territori caratterizzati da profonda depressione ( art.7 Legge 26/6/1965 n.717), nelle zone indicate con il più alto indice di spopolamento ( art. 10 Legge 6/10/1971 n.853 ) ed infine tra i paesi più poveri d'Italia in base ai rilievi CENSIS. A ciò si devono aggiungere le frequenti alluvioni che dal 1951 in poi hanno avuto una cadenza quasi biennale, la più grave delle quali è senza dubbio quella registrata ad inizio del 1973.

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Dopo Don Fabrizio, Don Carlo
Dopo il nostro Principe Fabrizio, ciò che accadde ai Carafa, influì certo anche sul territorio "prunarese" , anzi, ormai ufficialmente e storicamente "fabriziese". Avventure e disavventure di questa famiglia, che ormai aveva scalato le vette della nobiltà, costituirono un umus che influenzo e condizionò la storia e l'attività politico-economica del Regno di Napoli. Scrive Franco Carè, facendo riferimento a documenti reperiti presso l'Archivio di Stato, che "la ricchezza forestale del territorio prunarese era tanto apprezzata dal Consiglio di Corte napoletano da indurlo, nel 1771 ad approvare lo spostamento delle regie ferriere da Stilo, dove si era verificato un depauperamento boschivo quasi assoluto, ad una contrada del demanio comunale di Fabrizia nota come cima o mungiana, ricca di acque e selve estese". Ritroviamo, quindi, che l'attività ed il territorio, dominato dai Carafa, veniva tenuto in considerazione nell'ambito della pianificazione economica in ambiti molto importanti per l'epoca. Non dimentichiamo che le industrie ferriere sono state le pioniere dell'industria moderna. E queste officine, sotto il diretto controllo statale, divennero il fiore all'occhiello del Regno di Napoli. Un'altra attività "industriale" che ebbe grande fortuna ed elevate attenzioni statali fu quella della lavorazione della lana. I cosiddetti "Battendieri", ovvero, come noi fabriziesi li conosciamo "li vattindiari", sorgevano in punti strategici della fiumara dell'Allaro. Il prodotto finito era il filato. E' noto che in questo lembo meraviglioso di terra all'epoca si produceva non solo la lana ma anche altre fibre di pregio per l'epoca, che si chiamava "orbace" o, meglio, per noi fabriziesi, "l'arbasu". Con questo filato, che se non era così noto come altri filati classici, era praticamente insostituibile per la confezione dei costumi dei pastori. I pastori, che naturalmente conducevano una vita abbastanza "nomade" a motivo della necessaria transumanza delle greggi, dalla montagna alla collina e viceversa, erano esposti alle inclemenze del freddo ed a sopportare caldo e fatica del variare delle stagioni.

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La fibra di cui erano tessuti questi "custumi", aiutava a ripararsi sia dal caldo che dal freddo grazie alle sue proprietà isolanti. Tanto altro potrebbe essere detto sull'andamento dell'economia del territorio dovuta all'influenza della famiglia Carafa, ma per il momento, trattando della figura del Principe Fabrizio Carafa e della sua famiglia, vogliamo dare uno sguardo alla successione nobiliare che ne seguì, almeno nell'immediato. Utili notizie, in parte vagheggiate ma tante, invece, storiche, sono state reperite sul sito di Raffaele Raimondo, www.torreweb.it, dove è stato pubblicato un interessante articolo su "I Carafa della Roccella", nel quale, tra l'altro, si racconta l'episodio che causò la morte di Don Fabrizio. Il 13 marzo 1671, il principe di Roccella, nello scendere dalla sua carrozza per salire su quella del principe di Scilla don Francesco Maria Ruffo, pose un piede in fallo e si ruppe una gamba. Si racconta che proprio in quei giorni fervevano i preparativi delle nozze del figlio maschio di don Fabrizio, Carlo Maria Carafa con la cugina Isabella d'Avalos, figlia dei marchesi di Pescara e Vasto. Era tutto pronto per le nozze, che dovevano essere celebrate a Procida ma, purtroppo, nei giorni seguenti, il Principe, fu colpito da una mortale cancrena. Infatti, il Principe di Roccella don Fabrizio Carafa, morì il 24 marzo 1671. Era il Principe Carlo l'unico erede maschio di Fabrizio, il quale, sposato ad Isabella non riuscì ad avere a sua volta un erede a cui lasciare le sue fortune. Però il Principe della Roccella Fabrizio Carafa, aveva un'altra figlia, di nome Giulia nata nel 1643, che sposò Federico Carafa dei duchi di Bruzzano; ma questa andò a vivere nel feudo della famiglia di Federico a Bruzzano.

 

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